sabato 12 giugno 2010

Affitta l’utero in Ucraina e torna col figlio L’inchiesta sarà archiviata

Corriere della Sera - 12 giugno 2010

Nessun reato contestabile a una coppia trevigiana

VENEZIA - Quattro mesi di indagini hanno portato ad un nulla di fatto. O meglio alla convinzione che non possa essere contestato alcun reato alla coppia trevigiana finita al centro della cronaca a inizio anno dopo che nei giorni di Natale era stata fermata all’aeroporto Marco Polo di Venezia insieme ad una bambina appena nata dall’«utero in affitto» di una donna ucraina. Il magistrato titolare dell’indagine, il pm veneziano Giovanni Zorzi, ha infatti trasmesso all’ufficio Gip lagunare una richiesta di archiviazione per i due genitori, i quali erano stati indagati con la pesante accusa di alterazione dello stato civile. Secondo il pm infatti in presenza di un certificato di nascita valido in cui si dice che la donna è la madre - emesso dall’Ucraina, paese in cui la «maternità surrogata» è consentita dalla legge -, la legge italiana non prevede la contestazione di un reato. Anzi, l’ufficiale di stato civile del comune trevigiano in cui vive la coppia ha provveduto, dopo essersi consultato con un’altra procura, quella di Treviso, a trascrivere il certificato in Italia; resta solo aperto ora un procedimento di fronte al Tribunale per i minorenni, per valutare se alla luce del comportamento tenuto la coppia sia idonea a tenere il bambino.

Un esito che apre la porta a chi, non riuscendo ad avere figli per via naturale, cerca disperatamente un modo alternativo per potersi godere un bambino. Una vicenda che ancora una volta si colloca a cavallo tra giustizia penale, etica e buon senso: è ammissibile considerare madre una donna che in realtà non ha portato in grembo il bambino, ma che ha «prestato» ad un’altra donna il seme del marito? In Ucraina lo è, tanto che si è sviluppato un mercato di circa un migliaio di coppie all’anno, provenienti da tutto il mondo: ci sono gli annunci su internet, con pacchetti - tanto per citare un esempio - da 4.900 euro («economico» con un unico tentativo), 8.900 («doppio»), 12 mila («ideale», quanti tentativi si vogliono), fino a 30 mila euro. La coppia era stata pizzicata a Natale in aeroporto, con la bimba di 25 giorni. I due avevano simulato una gravidanza di lei, salvo poi andare a ritirare la piccola in Ucraina. Alla frontiera erano stati fermati dalla Polizia e da lì era nata l’indagine. Le dichiarazioni dei due presunti genitori e l’indagine genetica hanno confermato tutto: lui aveva dato il suo seme alla donna ucraina. Ma secondo una legge del 2008 in questo caso sul certificato di nascita viene indicato il nome della «finta» mamma, senza indicare in alcun modo che concepimento, gravidanza e parto sono avvenuti nel corpo di un’altra donna.

Un caso sicuramente complesso, ma che si basa comunque - questa la tesi del magistrato - su un atto regolare di un paese straniero, su cui ovviamente la giustizia italiana non può mettere bocca. L’utero in affitto, oltre che in Ucraina, ritenuta però la «patria» della pratica, è consentito anche in Gran Bretagna, Stati Uniti, Israele, Russia. Sembrerebbe quindi caduta - in attesa di quanto disporrà il gip - la pesante accusa di «alterazione di stato», prevista dall’articolo 567 del codice penale: si va dai tre ai dieci anni di reclusione in caso di alterazione dello stato civile di un neonato, sostituendolo, addirittura dai cinque ai quindici anni in caso di false certificazioni o attestazioni nella formazione di un atto di nascita. «Non è il pm che ha acconsentito bonariamente a scagionare la coppia in questione, ma si tratta di una situazione probabilmente insuperabile per il diritto penale italiano - commenta l’avvocato bolognese Giorgio Muccio, esperto di questioni legate alla fecondazione artificiale e consulente di un noto blog sul tema - Per evitare casi del genere il legislatore italiano potrebbe porre mano alle norme penali, soprattutto relative alla territorialità, perché se un fatto non è previsto come reato in un paese straniero, non è possibile contestarlo una volta rientrati in Italia».

Alberto Zorzi

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