mercoledì 19 ottobre 2011

Prima maternità a 40 anni record delle donne laziali

Repubblica - 19 ottobre 2011

"Si partorisce sempre più tardi", dice Raffaella Scalisi, tra le socie fondatrici del Melograno, associazione che da decenni si occupa di madri. Nel 1980 le mamme sopra i 34 anni erano il 10 per cento, ora superano il 35%.

Sempre più spesso il primo bebè arriva quando già spuntano anche i primi capelli bianchi. Che fare? Si sospende la "tinta" per poter allattare, certo. E subito dopo ci si butta nel frullatore: tra il lavoro che riprende e quello in casa, con il bebè da svezzare. Che spesso non è uno solo, se è vero che ne Lazio nel giro di 30 anni, i parti gemellari solo quasi quadruplicati. La foto è stata scattata dall'associazione il Melograno che descrive incrociando dati Istat e dell'Asp (l'Agenzia di sanità pubblica) come l'universo delle mamme laziali si sia trasformato nel tempo. Grazie alle tecniche di fecondazione, certo. Alla mentalità che cambia, è ovvio. Ma anche grazie - o meglio per colpa - della crisi economica. Il dato più lampante è l'età attempata delle madri. Lo scorso anno l'8 per cento dei bimbi nati nella nostra regione si è ritrovato a sorridere ad una mamma che aveva già festeggiato i suoi primi 40 anni.

"Si partorisce sempre più tardi", dice Raffaella Scalisi, tra le socie fondatrici del Melograno, associazione che da decenni si occupa di madri. "Questo - spiega - perché le coppie raggiungono un'autonomia economica ormai in là con l'età. Per via del lavoro che non si trova e i costi proibitivi delle case. A volte anche per rincorrere la carriera. Fatto è che nel 1980 le mamme sopra i 34 anni erano il 10 per cento, ora supera il 35%".

Si aspetta dunque il momento più opportuno per mettere su famiglia, ma intanto le lancette dell'orologio biologico vanno avanti. Inesorabili. In Italia nel 2009 secondo la Relazione del ministero della Salute, i bambini nati con la fecondazione assistita sono stati 10.819. Vale a dire quasi il 2 per cento dei neonati. Nel Lazio le donne che per avere un figlio si sono sottoposte a tecniche "a fresco" come la fertilizzazione in vitro, sono state 4.882. Ben 23 sono i centri sparsi nella regione che si occupano di chi ha problemi di sterilità.

Il risultato è che si vedono sempre più passeggini bi e triposto in giro. Effetto dell'inseminazione pilotata. I parti plurimi dal'82 al 2009 sono quindi schizzati dall'1,4 per cento al 4 per cento. E aumenta - secondo i datti del Melograno - l'autodeterminazione della donna. Lo scorso anno, la cicogna ha consegnato un bebè su quattro al di fuori del matrimonio. E in molti casi, a riceverli, non c'erano i papà, ma solo mamme. "Così alla solitudine delle donne - continua Raffaella Scalisi - si aggiunge l'insicurezza. Per un figlio "prezioso", arrivato tardi, con fatica, con un eccesso di medicalizzazione, con pochi aiuti, accresce la naturale ansia di diventare genitore, il timore di non essere all'altezza e la ricerca di esperti e di guide". Non a caso al Melograno, negli ultimi anni, è cresciuta la richiesta di puericultrici a domicilio per spiegare cosa si deve fare con un bambino appena venuto al mondo. "Lavoro" un tempo di nonne e zie, ora sempre più spesso costrette a dare forfait perché, anche loro, troppo avanti negli anni.


ALESSANDRA PAOLINI

lunedì 10 ottobre 2011

C'è una bimba nella seconda vita dell'uomo simbolo della Thyssen

Repubblica - 10 ottobre 2011

Boccuzzi, l'unico sopravvissuto della strage nell'acciaieria diventa papà: ma sulla fecondazione artifificiale la legge è troppo restrittiva. Alle famiglie come la nostra però vorrei dire di non mollare

"Rebecca arriverà il 7 novembre. Non so dire quanto sono felice. Per me, per mia moglie Giusy, per tutti quelli che come noi non potevano avere figli 'naturalmentè e alla fine ci sono riusciti. Il nome l'ho scelto io: suona bene con Boccuzzi, ed è un bellissimo personaggio della Bibbia". Antonio Boccuzzi ha 38 anni, è diventato suo malgrado l'uomo-simbolo della tragedia della ThyssenKrupp, l'unico su otto compagni a essere sopravvissuto al rogo che distrusse l'acciaieria che stava per essere dismessa.Oggi è un deputato del Pd. Ma forse è la prima volta, dopo la notte della tragedia, dopo che le ustioni sulla faccia sono scomparse, che sorride davvero. Perché la vita sta per ricominciare da capo, con l'arrivo di una bambina, e questo rende felici tutti i genitori, ma chi ha vissuto una tragedia ancora di più. Ma anche perché per lui e per Giusy, sposati da undici anni dopo un rapido fidanzamento, è un sogno che si avvera, al termine di un lungo viaggio che li ha portati a numerosi tentativi di fecondazione assistita, e finalmente al successo, a Bologna, nella clinica di Carlo Flamigni. "Io rispetto tutti, credo di capire, dopo questa esperienza, chi vuole un figlio e poi decide di lasciare perdere, o di adottare. Ma alle coppie come la nostra vorrei dire di non mollare, anche se in questo paese c'è una legge assurdamente restrittiva, anche se - purtroppo - per chi ha problemi economici e non può rivolgersi al privato i tempi sono lunghi, troppo lunghi. Qualcuno è più fortunato, altri meno, come la coppia di Mirabello che non ha più la sua bambina: non voglio entrare nel merito, ma sono solidale con loro".


Quando vi siete resi conto delle vostre difficoltà a diventare genitori?
"Ci siamo sposati giovani, era il 2000, io avevo 27 anni e Giusy uno di meno. Ci eravamo incontrati per caso, una sera in birreria, e da allora non ci siamo più lasciati. All'inizio non pensavano di avere figli subito. Io ero già operaio alla Thyssen, lei ha cambiato tanti lavori, faceva la commessa alle Gru. Ma i soldi erano pochi, e oggi ci si preoccupa molto, forse troppo, di poter garantire più benessere ai bambini di quanto ne abbiamo avuto noi. Un fatto è certo: fin dall'inizio, per Giusy diventare mamma era un'esigenza fortissima. Io la sentivo, sì, ma non così forte come lei. Prima dell'incendio, abbiamo cominciato a preoccuparci perché il bambino non arrivava. Poi, c'è stata la tragedia, e per un bel po' di tempo ho pensato a quella e non certo a diventare papà. Tre anni fa, abbiamo fatto i primi esami e scoperto che c'era un problema che dipendeva da me: spermatozoi pigri, un fatto piuttosto comune".

Molte coppie 'scoppiano' di fronte a queste cose, ci si incolpa a vicenda, oppure non si riesce a affrontare una terapia lunga e invasiva. A voi come è andata?
"Benissimo. Neppure per un attimo mia moglie mi ha fatto pensare che fosse 'colpà mia. Abbiamo fatto tutto insieme, i prelievi, le cure... Il ruolo dell'uomo in queste cose non è un granché, per le donne è più pesante. Ma anche quando toccava a me, ci abbiamo riso sopra, abbiamo sdrammatizzato... Del resto c'erano dei precedenti in famiglia".

Quali precedenti?
"Mi chiamo Antonio perché mia mamma (scomparsa nel gennaio del 2008, ndr) e mio papà mi hanno aspettato per sei anni. Sono nato dopo che mio padre si era sottoposto a una cura molto pesante, prescritta da un medico torinese, Antonio Mussa, e dopo che mia mamma era andata in pellegrinaggio a Padova e aveva fatto un voto a Sant'Antonio. Allora non c'erano le tecniche di oggi, ma i miei non si sono scoraggiati, e alla fine di figli ne hanno avuti tre".

A chi vi siete rivolti per cercare di avere un bambino?
"A un centro privato torinese, prima abbiamo fatto una Fivet, poi una Icsi (la tecnica oggi più usata, che consiste nel reimpiantare l'ovocità già fecondato, ndr) che pareva essere riuscita. Ma quella gravidanza è finita dopo venti giorni, per mia moglie è stato un dramma. Avevo già conosciuto il professor Carlo Flamigni, me lo aveva presentato Stefano Esposito a un dibattito a Torino sulla legge 40 e le limitazioni che impone alle coppie. Siamo andati da lui, e al secondo tentativo è andata bene. Ma, cosa altrettanto importante, io e soprattutto Giusy ci siamo sentiti accolti, capiti. Sono nate delle amicizie, sentivamo che il nostro problema era condiviso da tutti, dal professore alle infermiere".

Dov'era quando ha saputo che sarebbe diventato padre?
"In aula, a Montecitorio. E' arrivato un fax con l'esito degli esami e mia moglie mi ha chiamato prima ancora di leggerlo, lo abbiamo saputo insieme. Da lì sono cominciati nove mesi di emozioni incredibili. Io non ci credo che già all'ultima ecografia si vedesse che Rebecca mi assomiglia, ma mia moglie mi ha fatto trovare sul computer di casa una mia foto da piccolissimo accostata a quella dell'ecografia...".

Il 7 novembre è un lunedì. Ci sarà?
"Altroché. E' una data che abbiamo scelto per essere più che sicuri che io potessi essere al Sant'Anna. Siamo nati tutti lì, anche mia mamma, e ora ci nascerà Rebecca".


VERA SCHIAVAZZI

venerdì 7 ottobre 2011

I semi dei padri anonimi (e no)

Corriere della Sera - 7 ottobre 2011

Nel 2005 Londra cambia le regole: i figli hanno diritto di conoscere il donatore. Ma è una legge migliore?

Gli iscritti sono più di 33 mila, i fratellastri che si sono scoperti tali quasi novemila, i padri «ritrovati» 15 mila, i visitatori del sito, anche europei, 10 mila ogni mese: il Donor Sibling Registry da quando è nato nel 2000 per iniziativa di Wendy Kramer, mamma single del Colorado, e di suo figlio Ryan concepito col seme di un donatore anonimo, ha avuto un successo quasi inspiegabile. Per abbattere il «buco nero» della paternità genetica, bisogna inserire il numero identificativo fornito all’epoca dalla banca del seme e vedere se qualcuno si fa vivo. Perché si vuole conoscere le proprie origini? Per semplice curiosità, per essere rassicurati su se stessi, sulle proprie radici, ma anche per trovare i quasi-fratelli. Come se queste persone si sentissero la metà di una mela e intravedessero finalmente la strada per ritrovare l’altra. Se leggiamo qualche storia sul blog troviamo frasi come quella di Cara che scrive: «Il registro mi ha cambiato la vita; ora so di avere una sorella, è come scoprire una nuova famiglia». Che può rimanere virtuale, o arrivare all’incontro in carne ed ossa e poi ad una relazione.

Quella della Kramer non è l’unica iniziativa; esiste da poco un sito web, Anonymous Us, già molto cliccato, creato da Alana Stewart, una ragazza newyorkese che invita altre persone con la sua stessa storia di inseminazione artificiale a raccontarsi (in forma del tutto anonima); va alla grande anche il blog Confession of a Cryokid (un bambino nato grazie a Cryos, la banca del seme danese), avviato da Lindsay Greenawalt, concepita nel 1984 a Cleveland grazie al donatore n˚ 2035. Lindsay vuole essere l’esempio della ricerca del padre genetico e chiede ai frequentatori del suo blog di commentare le notizie in materia. Come l’ultima, di qualche giorno fa, quando un uomo ha confessato alla moglie nel corso della trasmissione televisiva Style Exposed: Sperm Donor di aver 75 figli sparsi per l’America (il record, detenuto da un altro americano, è di 150, possibile perché negli Stati Uniti non c’è limite al numero di inseminazioni del donatore, diversamente a quanto accade in Europa). Padre genetico che di là dall’Atlantico resta per legge top secret, mentre altri Paesi europei (e non) hanno concesso ai figli dell’inseminazione artificiale di conoscere l’identità del donatore al compimento dei 18 anni, senza che questa rivelazione implichi doveri di paternità, giuridici e economici.

La prima a scendere in campo contro l’anonimato fu la Svezia nel 1985; scelta analoga hanno fatto la Svizzera nel 2001, dove il nome del donatore viene conservato per 80 anni presso il ministero della Sanità di Berna in busta sigillata, l’Olanda nel 2004, poi la nuova Zelanda, l’Australia, la Gran Bretagna nel 2005. L’anonimato resta valido in Francia (anche se si discute da tempo sulla sua legittimità), in Belgio, in Spagna. In Italia il problema non si pone perché è vietata la fecondazione eterologa; ciononostante, un po’ paradossalmente, il Comitato nazionale per la Bioetica sta lavorando ad un documento sull’anonimato del donatore (forse tenendo conto di quante coppie vanno a farla all’estero!). Abbattere il «muro» che impediva di sapere, ha portato inevitabilmente ad un crollo delle donazioni: in Svizzera c’è una tale scarsità di seme che le cliniche per l’infertilità non riescono a far fronte alle richieste (e il limite di otto figli per donatore che vige in territorio elvetico non facilita il compito), in Inghilterra, dove nel 2006 un’inchiesta della Bbc documentò una situazione vicina alla paralisi, solo adesso si registra una controtendenza. Alla London Sperm Bank, la più importante del suolo inglese, i donatori stanno aumentando, non perché sia cresciuta la loro parcella, ma perché si è costruito un profilo personale del donatore, cercando di capire meglio le sue motivazioni e valorizzandole anche «nel catalogo», al di là del denaro. Allora capita che il ricco banchiere della City, felicemente sposato con prole, ritenga suo dovere fare qualcosa di altruistico in un’esistenza privilegiata e che il soldato in partenza per l’Afghanistan desideri lasciare una traccia di sé (la legge inglese ammette un limite massimo di 10 figli). «È forse il segno— commenta la sociologa Marina Mengarelli, che da anni si occupa degli aspetti socioculturali dell’infertilità — che ci si sta avviando verso l’accettazione di una genitorialità più ampia dove si riconosce dignità anche al donatore di seme».

La motivazione in certi casi diventa, però, ambigua, morbosa: la rivista Newsweek ha appena riportato la storia dell’americano Trent Arsenault, 36 anni che ha donato il suo seme a 50 donne, generando 10 figli. Ancora «vergine» si dichiara un donorsexual, un uomo la cui vita sessuale si esprime soltanto nella donazione. Mentre insieme a questi fenomeni limite, cresce una nuova frontiera: quella dello scambio di seme al di fuori di qualsiasi transazione economica e vincolo. In gennaio Beth e Nicole Gardner hanno lanciato il portale Free Sperm Donor Registry (il registro gratuito dei donatori di sperma) dove la donazione è soltanto un atto di generosità; sei mesi dopo i donatori sono già 400, i figli in gestazione una dozzina, gli iscritti più di 2000. Un registro che oltre a mandare in soffitta medici e denaro, non ammette più limiti all’anonimato, neanche quello dei diciotto anni. Sembra dare ragione a questa visione radicalizzata (che può anche esporre a qualche rischio sanitario) uno studio appena pubblicato dalla rivista Human Reproduction, realizzato da Diane Beeson, sociologa dell’università della California. Ad oltre 700 figli dell’inseminazione artificiale ormai adulti — dai 18 anni in su—iscritti al Donor Sibling Registry è stata rivolta mediante un questionario una serie di domande sul loro vissuto nei confronti del padre genetico. Nell’80 per cento dei casi viene espresso il desiderio di conoscere l’identità del donatore e di incontrarlo, ad esempio per vedere se c’è una somiglianza. «Non mi meraviglia — commenta Chiara Lalli, filosofa e bioeticista, autrice di Libertà procreativa, edito da Liguori—; è una curiosità legittima, non c’è niente di peggio che avere a che fare con i fantasmi. In una visione più serena, i figli dei donatori di seme dovrebbero avere lo stesso diritto a sapere di quelli adottivi».

Franca Porciani

martedì 4 ottobre 2011

Incinta grazie ad autotrapianto di tessuto ovarico

Repubblica - 4 ottobre 2011

A Torino un caso con pochissimi precedenti. La donna, affetta da una grave forma di talassemia, era diventata sterile con le terapie per il trapianto di midollo e si era fatto in tempo solo a prelevarle dei frammenti di ovaio, "risvegliati" con successo dopo 8 anni di crioconservazione

ROMA - E' rimasta incinta grazie a un autotrapianto di tessuto ovarico: è la prima volta in Italia. Protagonista di questa gravidanza connubio di laboratorio e natura è Alessandra, una torinese di 28 anni, talassemica dalla nascita. Quando aveva 20 anni le avevano prelevato e congelato due frammenti di ovaie prima di sottoporla a un regime intensivo di chemioterapia che l'aveva in seguito resa sterile. Un trattamento, questo, preliminare al trapianto di midollo eseguito al centro onco-ematologico del Regina Margherita, estrema terapia che l'aveva salvata da una forma grave forma di talassemia major che non rispondeva più alle terapie tradizionali e che l'avrebbe condannata.

Dopo otto anni, nonostante la chemioterapia ne avesse compromesso la capacità riproduttiva, i medici l'hanno di nuovo resa fertile, reimpiantandole i frammenti di ovaie conservati per tutto quel tempo nel congelatore. Quei due lembi di ovaio contenevano moltissimi follicoli, cioè potenziali ovociti, che si sono "risvegliati", consentendole di poter restare incinta. Oggi Alessandra è al quarto mese di gravidanza e il suo caso è presentato in tutti i convegni nazionali sulla fecondazione artificiale perché ha solo 14 precedenti nel mondo.

La particolarità - a differenza del recente caso di Bologna 1 - sta nel fatto che nel 2003, quando le condizioni di salute della ragazza precipitarono, non c'era il tempo per una tradizionale stimolazione ormonale e il conseguente prelievo degli ovuli. Per garantirle la possibilità di diventare un giorno madre, c'era solo quella via, urgente ma anche dagli esiti incerti: prelevare direttamente una parte delle ovaie, e congelarla.

Quando Alessandra, nella primavera del 2010, è stata considerata fuori pericolo e con il suo fidanzato ha desiderato un figlio, in frigo da 90 mesi l'attendevano quei due frammenti della sua fertilità perduta. A quel punto, è stata "adottata" dagli specialisti del Sant'Anna di Torino, del Progetto Fertisave fondato nel 2001 dal professor Marco Massobrio. In questo centro si congelano ovociti e tessuto ovarico delle pazienti, in particolare bambine, che devono sottoporsi a terapie che possono comprometterne la fertilità futura.

In Italia, però, nessuno aveva mai tentato l'autotrapianto di tessuto ovarico. Gli specialisti torinesi, coordinati da Alberto Revelli, per approfondire le conoscenze su questa tecnica hanno dovuto fare il giro di quei quattordici centri al mondo - fermandosi soprattutto in Belgio - nei quali era stato in precedenza azzardato quel percorso terapeutico. A organizzare tutte le fasi della complessa operazione, le ginecologhe Delle Piane, Salvagno e Dolfin, mentre la biologa Emanuela Molinari ha curato il processo di scongelamento dei tessuti. Per il reimpianto sono scesi in campo gli specialisti della Fisiopatologia della Riproduzione e della procreazione medicalmente assistita sotto la guida del dottor Gregori e della professoressa Chiara Benedetto.

I medici hanno reimpiantato i frammenti ovarici in due interventi in laparascopia. Con la prima operazione è stata preparata la sede che avrebbe ospitato i tessuti. "È stato come arare il terreno dove poi seminare", hanno spiegato i medici. Con il secondo, eseguito a tre mesi di distanza, i due frammenti di ovaio sono stati riposizionati e dopo alcuni mesi hanno attecchito. "Sono come resuscitati". E con loro è tornata l'ovulazione. Un miracolo? No. La procedura era sperimentale, spiegano i camici bianchi, ed è riuscita. E ora Alessandra aspetta un figlio.


ALBERTO CUSTODERO