Repubblica — 16 luglio 2008 pagina 36
Louise Brown aprì gli occhi e fu chiamata "la bambina miracolo". I tabloid inglesi raccontarono la sua nascita il 25 luglio 1978 come se un meteorite fosse appena atterrato dallo spazio. Per la prima volta, nel caso di quella bimba dal viso rotondo, un ovulo e uno spermatozoo si erano congiunti nella provetta di una clinica e alla luce di una lampada al neon, anziché nel ventre materno. Frankenstein fu l' esempio più abusato per descrivere al pubblico la nuova tecnica e il New York Times intitolò il suo editoriale "Concepire l' inconcepibile". Aldous Huxley - si ricordò - quasi cinquant' anni prima aveva scritto un romanzo in cui sesso e procreazione avevano perso ogni legame, e i bambini nascevano in incubatoio respirando aria artificiale.
Trent' anni più tardi "i bambini miracolo" sono diventati tre milioni nel mondo, e nessuno si sogna più di chiamarli così. La scienza studia le tecniche per aumentare di qualche punto percentuale le chance di successo della fecondazione assistita. Si cerca di rendere i prezzi abbordabili anche per i paesi del terzo mondo. E tutti gli esami medici cui i "figli della provetta" sono stati sottoposti non hanno trovato nulla di strano.
Louise Brown sorride con il suo bambino in braccio, in barba al contratto che il tabloid inglese Daily Mail stipulò allora con i suoi genitori: 500mila dollari per le foto in esclusiva e la possibilità di rivenderle con uno sconto del 40 per cento qualora la bambina fosse morta nel giro di una settimana. «Ricordo bene quando nacque Louise. Era l' anno della mia maturità e la notizia mi sembrò stravagante», ricorda Alberto Revelli, che trent' anni dopo dirige il Centro di medicina riproduttiva all' università di Torino e insegna biotecnologie della riproduzione umana. «Oggi i ragazzi nati dalla fecondazione in vitro li incrocio magari fra i corridoi. Hanno vent' anni, è bastato innaffiarli e sono diventati grandi così».
In Italia i figli della fecondazione assistita sono circa 100mila. «Ogni anno se ne aggiungono 7mila. Stiamo parlando di un numero importante. In alcuni paesi del nord Europa si arriva al 6 o 7 per cento delle nascite», spiega Anna Pia Ferraretti, direttrice scientifica della Sismer, la Società italiana di studi sulla medicina della riproduzione. Sulla salute di questi giovani adulti si sa ormai molto. «Non ci sono problemi particolari - spiega Carlo Flamigni, che insegna ginecologia all' università di Bologna ed è membro del Comitato nazionale di bioetica - però tendono a nascere leggermente prematuri e sottopeso. Non sappiamo se questo dipenda dalla tecnica di fecondazione o dalle cure cui la coppia si era sottoposta in precedenza per combattere l' infertilità». Quando oltre alla fecondazione in vitro si procede anche all' Icsi (iniezione intracitoplasmatica: lo spermatozoo viene iniettato direttamente dentro l' ovulo, bucandolo) qualche anomalia in più è stata notata. «C' è un lieve aumento di alcune malattie genetiche rare», spiega Flamigni. «Si tratta comunque di casi estremamente sporadici». Se oggi di uno sforzo c' è bisogno, per migliorare la fecondazione assistita, è quello di migliorare l' efficienza della tecnica. «Normalmente il 20-25 per cento delle coppie che si sottopongono a questo trattamento ha successo. Può sembrare una percentuale scoraggiante. Ma la specie umana ha un tasso di fertilità molto basso, anche in assenza di problemi specifici. E la legge italiana non ci aiuta a superare le difficoltà», spiega Ferraretti. «Siamo fatti per avere figli a 18 anni - dice Flamigni - ma oggi le ragazze non ne vogliono sapere. Di fronte agli anni che passano, anche l' efficienza della riproduzione assistita si perde. Non basta che la tecnica migliori di anno in anno: abbiamo imparato a scegliere gli ovuli più adatti e riusciamo a conservarli congelandoli. Ma di fronte alla barriera dell' età non c' è molto da fare». A sentir parlare di una tecnica con un successo del 20-30 per cento i "nonni" di Louise Brown (il ginecologo Robert Edwards e il biologo Patrick Steptoe) nel 1978 sarebbero balzati sulla sedia. Alla nascita della "bambina miracolo" si arrivò infatti dopo 12 anni di fallimenti. «Decine e decine di tentativi erano andati a vuoto. Fra gli scienziati e l' opinione pubblica c' era grande scetticismo. La Chiesa aveva pesantemente attaccato questa tecnica. E non dimentichiamo che allora il prelievo degli ovuli avveniva con un intervento chirurgico vero e proprio», spiega Revelli. Che fa il paragone con l' oggi: «L' interesse maggiore arriva dai paesi di Asia, Africa o Sudamerica. Sono appena tornato dall' India e ho in programma una conferenza in Tunisia. Abbattere i costi per estendere la fecondazione assistita a tutti è una delle priorità in questo momento. Ci sono società in cui l' infertilità è vissuta come uno stigma». La scorsa settimana l' ultimo congresso della Società europea per la riproduzione umana si è posto l' obiettivo di portare in Africa la fecondazione in vitro con meno di 200 euro a trattamento. Anche se le barriere culturali rimangono («Molti genitori tendono a tacere di fronte ai figli, come se nascere in questo modo fosse un peccato», racconta Ferraretti), i trent' anni della fecondazione in vitro per i medici sono un esempio. Forse non vale la pena, sembra raccontare la storia di Louise, scomodare così spesso Frankenstein invano.
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