Corriere del Veneto - 8 aprile 2011
PADOVA - Le pazienti, che tra il 2003 e il 2010 si sono sottoposte gratuitamente al trattamento di fecondazione in vitro nel centro di procreazione assistita dell'Azienda ospedaliera, non erano state informate del fatto che quelle prestazioni fossero invece a pagamento. Per la precisione: 400 euro le Fivet («fertilizzazione in vitro con embryo transfer»), 700 le Icsi («inseminazione intracitoplasmatica dello spermatozoo»). Dunque il buco da 300 mila euro nelle casse dell'ospedale, venutosi a creare proprio per la mancata riscossione degli interventi, non può essere a loro addebitabile. E' questo il punto a cui è arrivata la commissione interna dell'ospedale, istituita lo scorso 23 febbraio dal direttore dell'Azienda ospedaliera Adriano Cestrone, d'intesa con il segretario regionale alla Sanità Domenico Mantoan, con il compito di chiarire le eventuali responsabilità delle pazienti, che ha chiuso ieri i lavori.
Secondo la commissione, quindi, che ora preparerà un rapporto e lo consegnerà allo stesso Cestrone, le donne si sarebbero comportante in buona fede, versando solo quello che era stato richiesto loro dal personale della Clinica. E non dovranno essere loro, insomma, a risarcire l'ospedale. «E' una nostra vittoria, siamo contentissime - esulta Cristina Bernardi, la coordinatrice del comitato «Sosinformazioni», che in questi mesi ha guidato la battaglia delle pazienti -. E' l'epilogo che si poteva immaginare. Troppe erano state le dichiarazioni delle donne, che hanno sostenuto che nessuno le aveva informate di pagare quelle prestazioni». La Bernardi, che per raggiungere l'obiettivo aveva mobilitato anche il telegiornale satirico di Canale 5 Striscia la Notizia, è un fiume in piena. «Non è finita qua - dice -. L'Azienda nei giorni scorsi ci ha mandato una raccomandata, nella quale ci è stato anticipato che non dovremo rimborsare gli interventi. Ora, però, bisogna vedere se c'è qualche donna che, dopo l'ingiunzione avanzata dall'ospedale, per timore ha pagato. Anche quei soldi, come ci è stato promesso, dovranno essere restituiti».
Da parte della coordinatrice del movimento non manca, tuttavia, una riflessione amara. «Se non avessimo sollevato questo polverone non so com esarebbe andata a finire - afferma -. Qualcuno forse si sarebbe preso la briga di verificare che le pazienti non avevano pagato le fecondazioni solo perché nessuno le aveva chieste loro? Né le donne, né i medici erano a conoscenza del fatto che quelle fecondazioni andassero pagate. Adesso non so chi dovrà tirare fuori i soldi, ma è chiaro che c'è stato un errore dell'amministrazione. E anche la Regione ha le sue responsabilità. Non è normale, infatti, che in Veneto ogni centro di procreazione assistita abbia regole diverse». Alla fine, dunque, la Bernardi annuncia. «Non ci fermeremo - dice -. Da questa esperienza sono nate tante cose belle. Abbiamo deciso di fondare una Onlus, che si occupi della ricerca sulla fecondazione assistita. E presto ci sarà anche un grande concerto».
E una parola arriva anche dal professor Guido Ambrosini, l'ex responsabile del centro di procreazione, licenziato dall'Azienda ospedaliera per la mancata riscossione delle prestazioni e poi reintegrato dopo la sentenza del tribunale del Lavoro. «E' stata tutta un'operazione politica - confida -. Come si è visto le donne non avevano nessuna responsabilità. Ma anche noi medici. La Regione doveva informarci chiaramente che, dopo il passaggio dal trattamento in day hospital a quello ambulatoriale, le fecondazioni dovevano essere fatte pagare».
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